Felice Mometti
La
crisi come progetto
Architettura
e storia in Manfredo Tafuri
Nella
storia non esistono “soluzioni”. Ma si può sempre diagnosticare
che l’unica via possibile è l’esasperazione delle antitesi, lo
scontro frontale delle posizioni, l’accentuazione delle
contraddizioni. E questo non per un particolare sado-masochismo, ma
nell’ipotesi di un mutamento radicale che ci faccia ritenere
superati, insieme all’angosciosa situazione presente, anche i
compiti provvisori che abbiamo tentato di chiarire a noi stessi.
1.
Riconoscimento e oblio
Stano
destino quello di Manfredo Tafuri. Considerato, quando era in vita,
tra i più importanti storici dell’architettura della seconda metà
del secolo scorso, mentre ora – a diciotto anni dalla morte –
una coltre di silenzio avvolge la sua produzione ed elaborazione
intellettuale. La sua figura suscita una sorta di imbarazzo. Un
imbarazzo fatto di riconoscimenti formali e ben più sostanziali
inviti all’oblio, alla sospensione del ricordo della sua attività
didattica all’Istituto Universitario di Architettura di Venezia e
delle sue riflessioni teoriche sul rapporto tra architettura e modo
di produzione capitalistico. Sicuramente questo è accaduto in
Italia, con l’eccezione di un interessante studio su Tafuri e
l’architettura contemporanea[2], un po’ meno nei paesi
anglosassoni. Il recente lavoro di Leach[3] ma soprattutto il saggio
di Day[4], che ricostruisce i rapporti tra Tafuri e l’operaismo
italiano rispondendo anche alle critiche affrettate di Jameson [5],
testimoniano un interesse maggiore.
Di
solito si è riconosciuti post-mortem, a Tafuri è successo il
contrario. C’è, tuttavia, una relazione tra il riconoscimento
formale e l’oblio: il primo è l’anticamera del secondo.
Tafuri
arriva come docente all’Università di Venezia nel 1968 con la
convinzione del carattere estremamente composito dell’architettura
degli ultimi due secoli e quindi della necessità di ripensare una
metodologia di analisi storica. Un progetto di ricerca che sviluppa
negli anni, successivi concentrandosi sul rapporto tra avanguardie
artistiche e metropoli, lavoro intellettuale e ciclo capitalistico,
architettura e ideologia. Non è un percorso lineare, ci sono
contraddizioni, sentieri che si interrompono, ritorni al punto di
partenza. C’è però la consapevolezza che il nodo teorico e
analitico di fondo consiste nella domanda che Benjamin ha posto
riguardo alla poesia e che è necessario porre anche rispetto
all’architettura. Non bisogna chiedere quale posizione occupi
un’opera rispetto ai rapporti di produzione dell’epoca, se essa
sia in sintonia con essi, se sia reazionaria, o se miri al loro
rovesciamento, se sia rivoluzionaria. Prima di chiedere che posizione
occupa l’architettura rispetto ai rapporti di produzione, ci si
dovrebbe chiedere qual è la sua posizione in essi.[6]
Tra
i rapporti di produzione capitalistici e l’architettura non c’è
quell’influenza diretta che una struttura esercita sulla
sovrastruttura, come molti marxismi hanno attribuito a Marx, e
nemmeno si può identificare l’architettura e la città come una
forza produttiva che entra in contraddizione con i rapporti di
produzione.[7] È dentro la continua riproduzione impersonale dei
rapporti capitalistici che prendono forma le teorie, le tecniche e le
pratiche dell’agire architettonico. Ma Tafuri non si ferma qui.
Sostiene infatti che come non può esistere un’economia politica di
classe, ma solo una critica dell’economia politica, così non può
fondarsi un’estetica, un’arte, un’architettura di classe, ma
solo una critica di classe dell’estetica, dell’arte,
dell’architettura, della città.[8] Questo è l’orizzonte
tafuriano quando si confronta con le avanguardie artistiche dei primi
del Novecento, con l’ideologia e la prassi della pianificazione in
Unione Sovietica, con la gestione socialdemocratica delle città
austriache e tedesche, con l’architettura e l’urbanistica
americana, con la storia dell’architettura italiana dal 1944 al
1985. Un approccio che non abbandona, pur mantenendolo sotto traccia,
anche quando si dedica agli studi sul Rinascimento. Anzi è proprio
lui a cercare di mettere in tensione continua il proprio progetto di
ricerca.[9]
Non
è facile attraversare il campo teorico individuato da Tafuri, si
rischia di mettere il piede su qualche mina. Si possono indicare come
esempi paradigmatici i diversi atteggiamenti assunti da due
architetti da sempre molto attenti al rapporto tra architettura e
contesto. Il riconoscimento formale di Vittorio Gregotti [10] e
l’invito all’oblio di Ignasi De Solà-Morales. Secondo Gregotti
sono gli studi di Tafuri sull’architettura del Cinquecento che ci
possono illuminare sull’epoca contemporanea e i suoi processi. In
modo particolare è il concetto di “compimento”, avanzato da
Tafuri nella Ricerca per il Rinascimento,[11] e non quello di
“superamento” del Moderno a doverci guidare. Nella sua battaglia
contro l’architettura postmoderna Gregotti assegna a Tafuri un
ruolo centrale, valorizzando, ma anche forzando, le idee contenute
nello studio sul Rinascimento. Per Gregotti bisogna portare a
“compimento” il Movimento Moderno[12], non così per Tafuri che
parla di “compimento” come di uno spostamento illusorio
dell’agonia che deriva dall’impossibilita di introiettare le
cause dell’angoscia dell’etica borghese nei confronti di
un’architettura sempre più autoreferenziale.[13]
Se
Gregotti usa in modo arbitrario “l’ultimo Tafuri” contro tutta
l’elaborazione precedente, Da Solà-Morales[14] procede in modo più
diretto contro una supposta “convinzione leninista” di Tafuri che
non aiuta a separare la realtà dall’astrazione, l’ideologia
dalla scienza, la pratica architettonica dalla teoria spingendo
l’avanguardia del proletariato al confronto con i suoi nemici di
classe. Non c’è in Tafuri alcun progetto storico, ci sono solo
pregiudizi che dipendono dalle sue fonti teoriche e dalle correnti di
pensiero dominati. Non si dice esplicitamente, ma la conclusione è:
“dimenticate Tafuri !”
Sorge
il sospetto, in entrambi i casi, che il vero problema sia il
carattere “radicale”, nel senso marxiano del termine di andare
alla radice delle cose, della critica “dell’ideologia
architettonica” che ha impegnato Tafuri quanto meno dal 1968 fino
alla sua scomparsa.
2.
Il ’68 e la rivista Contropiano
Nel
marzo del ’67 la rivista Classe Operaia, Mensile politico degli
operai in lotta cessa le pubblicazioni. Era nata tre anni prima per
iniziativa soprattutto di Tronti, Negri e Asor Rosa che ruppero con i
Quaderni Rossi di Raniero Panzieri. Nell’editoriale del primo
numero, Lenin in Inghilterra (gennaio 1964), Tronti enuncia quelle
che saranno successivamente le coordinate teoriche di gran parte
dell’operaismo italiano. L’idea di Tronti è quella di impostare
diversamente il rapporto tra capitale e lavoro. È un errore,
sostiene, vedere prima lo sviluppo capitalistico e poi le lotte
operaie, occorre rovesciare il problema e ripartire dal principio, e
il principio è la lotta di classe operaia.
La
crisi e la chiusura di Classe Operaia avviene per una profonda
divergenza che riguarda la traduzione politica di questo
rovesciamento di prospettiva che vede lo sviluppo capitalistico
principalmente come una risposta alle lotte operaie.[15] Tronti pensa
all’uso operaio del Partito, nel caso specifico del Partito
Comunista Italiano, al quale si era iscritto nel 1951 senza mai
uscirne fino allo scioglimento. Negri guarda alle lotte che stanno
assumendo una dimensione strategica tale da permetterne un’espansione
materiale e un arricchimento qualitativo che avrebbero preluso a una
nuova forma di organizzazione capace di andare oltre i partiti
tradizionali del movimento operaio. In questo contesto, nel gennaio
del 1968, nasce la rivista Contropiano, Materiali marxisti. I
promotori sono Negri, Asor Rosa e Cacciari, con Tronti che, questa
volta, ha un ruolo più defilato. Un progetto politico-editoriale che
cerca di combinare l’analisi, definita come “scienza operaia”,
delle questioni riguardanti i rapporti di classe sul piano teorico,
storico e militante con l’analisi degli aspetti ideali e culturali
della società capitalistica di massa, marxianamente definita come
critica dell’ideologia.[16] La rivista fin dal primo numero
affronta un arco molto vasto di temi, e ciò avviene:
[…]
perché noi pensiamo che la risposta del punto di vista operaio debba
rivelarsi efficace di fronte a qualunque livello delle istituzioni
capitalistiche. Naturalmente è ben chiaro che in questo settore la
rivista non può dare indicazioni positive, ma soltanto incentivi al
rifiuto e alla negazione. Non intendiamo ricostruire una cultura
della classe operaia – operazione in cui non crediamo, e che ci
sembrerebbe comunque offensiva, qualora la tentassimo, per la
maturità politica e pratica della classe operaia in questione –
bensì distruggere sistematicamente e fin dalle più lontane
fondamenta (spesso in verità più significative e probanti dei suoi
rappresentati attuali) la cultura di classe dell’avversario
borghese che ci appare ancora tutt’altro che sconfitta e
inefficiente (soprattutto se l’intendiamo, come noi l’intendiamo,
in quanto “sistema” di dominio intellettuale e di coercizione
ideologica di una classe sull’altra). [17]
L’obiettivo
è quello di aprire uno confronto- scontro con i punti alti della
cultura borghese, con i suoi fondamenti e le sue capacità di
diventare cultura dominante. Da questo punto di vista appare tuttavia
evidente la contraddizione in cui si dibatte la redazione della
rivista fin dalla nascita. La teoria di Tronti basata sul
rovesciamento del rapporto tra capitale e lavoro viene estesa al
rapporto tra cultura e classe operaia. Ma nello stesso momento in
cui si compie questa operazione ci si rende conto che l’ideologia
dominante è, seppur in termini non meccanicisti, l’ideologia della
classe dominante e che il rapporto che si intendeva rovesciare agisce
invece in profondità come dominio intellettuale. L’analogia tra
ristrutturazione capitalista come risposta alle lotte operaie ed
efficacia della cultura borghese come risposta alla maturità
politica e pratica della classe operaia non regge e genera una
contraddizione che non può ignorare la forma del dominio del
“sistema culturale borghese”.
L’esplosione
delle lotte studentesche nella primavera del ’68 mette a dura
prova la coesione interna della redazione di Contropiano. Il primo
effetto concreto, tra il primo e il secondo numero, sono le
dimissioni di Negri dalla direzione della rivista. Il casus belli, è
la pubblicazione del saggio di Tronti dal titolo Il partito come
problema, in cui riaffiorano i contrasti che avevano portato alla
chiusura di Classe Operaia. Ma non solo. C’è una diversa
valutazione del ruolo che il movimento studentesco può svolgere
nella trasformazione della società capitalista. Negri considerava
l’insieme delle lotte studentesche e operaie come l’apertura di
un processo pre-rivoluzionario. Cacciari e Asor Rosa, gli altri due
direttori della rivista, sostenevano la tesi che l’accerchiamento
delle casematte della linea di difesa capitalistica richiedeva una
strategia più articolata e di lungo periodo.
Tronti
sottovalutava ampiamente la portata di quella rivolta sociale, letta
essenzialmente come un processo di modernizzazione della società
italiana, tanto da affermare successivamente, in un’intervista del
2001 :
ho guardato il ’68 alla
finestra, proprio perché a noi che venivamo dall’esperienza delle
lotte operaie questo sembrava un movimento francamente minore anche
se aveva molta più risonanza dell’altro; in realtà già il fatto
che lì si parlasse di potere studentesco a noi che avevamo parlato
di potere operaio faceva un po’ ridere. Poi non ho mai pensato che
dei fatti generazionali potessero provocare sconquassi veri.[18]
Tafuri
non partecipa a questo dibattito interno alla rivista. Entra a far
parte della redazione solo nel 1969, quando Contropiano è ormai
diventato più uno strumento di riflessione critica sull’ideologia
del “neocapitalismo” italiano che non uno dei possibili luoghi di
orientamento e ripensamento di coloro che partecipano ai “movimenti
materiali della lotta di classe”.[19] In poco più di due anni
Tafuri pubblica quattro saggi: Per una critica dell’ideologia
architettonica,[20] Lavoro intellettuale e sviluppo
capitalistico,[21] Socialdemocrazia e città nella Repubblica di
Weimar,[22] Austromarxismo e città “Das rote Wien”.[23] Quattro
contributi che anticipano gran parte dei temi della sua elaborazione
successiva, e che segnano anche la linea editoriale delle rivista. Il
primo saggio sulla critica dell’ideologia dell’architettura apre
un dibattito che durerà diversi anni all’interno degli ambienti e
delle “comunità accademiche” degli storici e dei teorici
dell’architettura moderna. Viene posta, già a partire dall’incipit
del saggio Per una critica dell’ideologia architettonica, una
questione che, partendo dall’arte e dall’architettura, investe
direttamente il concetto stesso di modernità :
Allontanare l’angoscia
comprendendone e introiettandone le cause: questo sembra essere uno
dei principali imperativi etici dell’arte borghese. Poco importa se
i conflitti, le contraddizioni, le lacerazioni che generano
l’angoscia verranno assorbite in un meccanismo capace di comporre
provvisoriamente quei dissidi, o se la catarsi verrà raggiunta
attraverso la sublimazione contemplativa.[24]
La
modernità capitalista è intesa da Tafuri come crisi permanente,
perché il mutamento in quanto tale è uno dei suoi fondamenti. La
modernità è una discontinuità priva di una propria unità
tranquillizzante, ma al tempo stesso non è riconducibile a una
semplice pluralità. È piuttosto una profonda “dissociazione del
reale”, lo spezzarsi di quest’ultimo in una molteplicità
incoerente e spesso contraddittoria.
L’ultimo
numero di Contropiano esce nel 1971, Cacciari e Asor Rosa hanno
tratto la logica conseguenza della teoria sull’uso operaio del PCI
entrando a farne parte e ricoprendo anche cariche politiche e
rappresentative. Tronti non era mai uscito dal PCI e Tafuri si
iscrive senza però che questo significhi un impegno militante.
Finisce un’esperienza, quella di Contropiano, nata con l’intenzione
di durare a lungo. Un’intenzione che non divenne realtà. Le
diverse traiettorie politiche dell’operaismo italiano
attraversarono anche Contropiano decretandone la chiusura. Tafuri,
dal punto di vista politico, non si sentirà particolarmente
coinvolto, manterrà e approfondirà comunque un approccio teorico e
un metodo analitico le cui basi furono gettate nei due anni di
collaborazione alla rivista.
3.
Architettura e ideologia
Se
il saggio sulla critica dell’ideologia architettonica rappresenta
una svolta nell’affrontare i rapporti tra produzione intellettuale
e sistema capitalistico, le premesse di questa svolta si trovano in
un lavoro pubblicato da Tafuri nel ’68: Teorie e storia
dell’architettura.[25] L’ideologia sottesa dalle opere
architettoniche, scrive Tafuri, è una visione del mondo che si pone
come costruzione dell’ambiente umano. Una ideologia molto
“materiale” fatta di organizzazione degli spazi pubblici e
privati, di tecniche costruttive, di divisione del lavoro, di metodi
di progettazione.
Nell’architettura
del Rinascimento, anche tenendo conto dell’ambiguità di questa
definizione, “fallisce” il sogno della città laica, della città
dell’uomo, per un effetto combinato dovuto ai pesanti richiami al
“realismo politico” ad opera della Chiesa di Roma ed all’emergere
di una sorta di “nuovo feudalesimo” come reazione alla spinta
innovatrice rappresentata dalle idee dell’Umanesimo.[26] La città
rinascimentale di Brunelleschi e di Alberti affermava il carattere
concreto, socialmente determinato, della vita urbana. Una “città
reale” fatta di stratificazioni storiche in cui in nuovi “oggetti”
architettonici favorivano la diffusione di un comportamento laico e
razionale. L’ideologia di architetti come Brunelleschi e Alberti, o
di “amministratori” della Firenze del Quattrocento come Salutati,
si esprimeva attraverso l’identità di Natura e Ragione e nella
ricerca nell’architettura e nel pensiero della Roma “classica”
di una seconda e più perfetta Natura. Essi erano degli intellettuali
in senso moderno: intervenivano autonomamente sulla città
promuovendo un nuovo modo di vedere e vivere il mondo. La
razionalità, l’universalità e la laicità delle rappresentazioni
e delle strutture costruite, con l'uso della prospettiva, sono
strettamente connesse a questa nuova visione del mondo. Attraverso la
prospettiva si riduceva a unità misurabile, secondo un’unica
scala, la grande varietà della natura, e siccome la prospettiva si
occupa delle relazioni delle cose fra loro, a prescindere dalle loro
qualità, ne consegue che con questo nuovo codice visivo si
“predisponeva la realtà” a un’interpretazione quantitativa e
razionale.
Le
riflessioni di Tafuri sull’architettura e gli architetti del
Quattrocento sono rivolte alla comprensione degli aspetti originari
che hanno poi influito nel rapporto tra architettura e ideologia per
un intero periodo storico. Ma è con Per una critica dell'ideologia
architettonica che Tafuri, seguendo l'indicazione di Benjamin, inizia
a porsi il problema della posizione dell'architettura dentro i
rapporti di produzione capitalistici. Lo fa in modo molto netto
stabilendo un legame quasi meccanico tra il “dover essere” delle
avanguardie intellettuali e le ideologie delle “avanguardie del
capitale”, cioè tra le avanguardie intellettuali che assumono una
“missione sociale” e le avanguardie del capitale che rendono
funzionale al ciclo capitalistico tale “missione”: quanto più è
alta la sublimazione dei conflitti sul piano della “forma”, tanto
più restano nascoste le strutture che permettono tale sublimazione.
È
tuttavia durante l'Illuminismo che si forma l’architetto come
ideologo del “sociale”, ritagliandosi un campo di intervento
nella fenomenologia urbana. Si assegna un ruolo persuasivo alla
“forma”, anche mediante una dialettica, sempre sul livello
formale , fra il ruolo “dell'oggetto architettonico” e
l'organizzazione urbana. La città non è letta come struttura che
determina, attivando specifici meccanismi di accumulazione
capitalista, le trasformazioni del processo di sfruttamento del suolo
e delle rendite agricole e urbane. La città è concepita come un
fenomeno assimilabile ad un evento naturale e viene svincolata da
ogni considerazione di tipo strutturale. Questo “naturalismo
formale” serve in un primo momento:
per persuadere sulla
necessità oggettiva dei processi messi in moto dalla borghesia
pre-rivoluzionaria; in un secondo momento per consolidare e
proteggere da ogni ulteriore trasformazione le conquiste acquisite.
Dall’altro lato quel naturalismo svolge la propria funzione
nell’assicurare all’attività artistica un ruolo ideologico in
senso stretto. Non è casuale che proprio nel momento in cui
l’economia borghese inizia a scoprire e a fondare le proprie
categorie di azione e giudizio, dando ai “valori” contenuti
direttamente misurabili dai nuovi metodi di produzione e scambio, la
crisi degli antichi sistemi di “valori” venga subito coperta da
un ricorso a nuove sublimazioni, rese artificialmente oggettive
attraverso l’appello all’universalità della natura.[27]
In
questa “dialettica dell’illuminismo” l’architettura rinuncia
al tradizionale ruolo simbolico per scoprire la propria vocazione
scientifica. Così essa può divenire contemporaneamente uno
strumento di equilibrio sociale e una “scienza delle sensazioni”.
E’ un’architettura che pone esplicitamente il proprio operato su
un terreno politico. Gli architetti, in quanto agenti politici,
devono assumersi il compito di inventare continuamente soluzioni che
possono essere generalizzate andando oltre i singoli contesti urbani.
L’architettura è quel particolare “lavoro intellettuale” che
deve sistematicamente rivoluzionare se stesso, assegnando
all’ideologia un ruolo determinante, per stare al passo
dell’incessante “rivoluzione” del modo di produzione
capitalistico. Il rapporto tra “rivoluzioni architettoniche” e
“rivoluzioni capitalistiche” non è per Tafuri la semplice
influenza reciproca e tanto meno il facile rispecchiamento delle une
nelle altre e viceversa. L’ideologia architettonica, riferita alle
tecniche costruttive, alla relazione tra le forme e tra i volumi
nella morfologia urbana, alle teorie della progettazione, si forma
all’interno delle trasformazioni dei rapporti di produzione. È
un’ideologia che non si accontenta di essere solo mistificazione
della realtà e falsa coscienza, ma è orientata dalla ricerca dei
propri elementi costitutivi nella “materialità” –
organizzazione del lavoro, codici simbolici della produzione, il
lavoro oggettivato nelle tecniche e nelle macchine – dello
sfruttamento capitalistico del lavoro vivo.
Da
questo punto di vista Tafuri ricostruisce la dialettica immanente che
ha interessato tutta l’architettura moderna. Una dialettica che
sembra opporre chi tenta di scavare a fondo nel reale per assumerne
i valori e le miserie a coloro che invece vogliono spingersi oltre il
reale per costruire nuove realtà, nuovi valori, nuovi simboli
pubblici.[28] La città diventa il luogo dell’espressione
dell’ideologia che sta alla base delle teorie architettoniche e
urbanistiche tra il Settecento e l’Ottocento. I modelli urbani di
riferimento, che emergono dai nuovi rapporti di produzione, che si
consolidano durante la rivoluzione industriale, possono essere
ricondotti a tre variabili fondamentali. La città come insieme di
“bellezze particolari” tutte differenti, in cui da una regolarità
della moltitudine di singole parti risulti un’idea di irregolarità.
Un insieme di ordine e caos, di regolarità e irregolarità, di
organicità e disorganicità in cui il controllo di una realtà
disorganica serve non tanto per agire sulla struttura urbana, ma per
far emergere da essa una molteplicità di significati.
A
questa “pratica urbana” della città si contrappone una
concezione che si riferisce a un certo rigorismo tradizionale che,
che a ben vedere, affonda le radici nella razionalità della Roma
classica del De architectura di Vitruvio Pollione. Gli interventi
sulla città vanno compiuti introducendo nell’organizzazione
urbana, e nei suoi valori contradditori, un “luogo dirompente”
capace di irradiare i suoi effetti sull’intero tessuto urbano. Il
terzo modello è il pragmatismo della città americana. Il rapporto
che lega gli schemi di sviluppo della città americana ai valori che
si affermano nella società statunitense mette esplicitamente da
parte la possibilità di intervenire direttamente su quelle forze che
provocano i mutamenti morfologici della città. La maglia regolare
delle strade di scorrimento è il supporto a una struttura urbana di
cui si vuol salvaguardare il continuo mutamento. La libertà di
localizzare il singolo oggetto architettonico non condiziona in alcun
modo il contesto in cui è inserito. La città americana attribuisce
il massimo della libertà e articolazione agli elementi “secondari”
che la configurano, mantenendo tuttavia molto rigide le leggi che
governano l’insieme dell’assetto urbano.
Tre
modelli di città corrispondenti a tre modelli di capitalismo che si
presentano contemporaneamente in Europa e negli Stati Uniti
nell’Ottocento? Tafuri non arriva a questa conclusione, non
stabilisce una relazione così stretta. La sua riflessione si
mantiene all’interno dei confini della continua ricerca della
“posizione dell’architettura dentro i rapporti di produzione
capitalistici”. Tuttavia questa ricerca arriva in un vicolo cieco
nella parte finale di Per la critica dell’ideologia architettonica,
in cui egli tenta di combinarla ad uno dei principali assunti
dell’operaismo italiano e cioè la supposta estraneità della
classe operaia alle idee dominanti. Riaffiora la concezione di Tronti
della classe operaia come “rude razza pagana”:
L’architettura moderna ha
segnato le vie del proprio destino facendosi portatrice di ideali di
progresso e razionalizzazione cui la classe operaia è estranea, o da
cui è investita solo in una prospettiva socialdemocratica. Si potrà
riconoscere l’inevitabilità storica di tale fenomeno ma una volta
riconosciuto non è più possibile nascondere la realtà ultima che
rende inutilmente angosciose le scelte degli architetti di
“sinistra”.[29]
La
determinazione della “composizione di classe” può seguire solo
due vie: anticipare lo sviluppo urbano e capitalistico con i
comportamenti e le lotte oppure rimanere intrappolata in una
dimensione socialdemocratica. Non c’è un’altra strada.
Quattro
anni dopo, in Progetto e utopia, [30] Tafuri ritorna su questi temi
ampliando e rivedendo molte analisi e prese di posizione.
L’esperienza della rivista Contropiano si è ormai conclusa,
l’operaismo italiano è attraversato da una profonda diaspora che
non riguarda solo coloro che pensano ad un’organizzazione autonoma
in contrapposizione a chi ritiene percorribile “un uso operaio”
del Partito Comunista. In mezzo c’è stato lo scioglimento di
Potere Operaio – il fallimento del principale progetto politico e
organizzativo per ricomporre l’area operaista –, e l’ingresso
nel PCI di una parte degli intellettuali operaisti non ha prodotto al
suo interno alcuna contraddizione significativa.
La
pubblicazione di Progetto e utopia, una rielaborazione di Per una
critica dell’ideologia architettonica con l’inserimento di alcune
parti di Lavoro intellettuale e sviluppo capitalistico, è anche
l’occasione per rispondere alle critiche che avevano sollevato i
saggi contenuti in Contropiano. Innanzitutto non si parla più di
“scienza marxista” ma di “critica marxista” ed invece che del
legame quasi meccanico tra il “dover essere” delle avanguardie
intellettuali e le ideologie delle “avanguardie del capitale” si
parla solo della tacita intesa tra le avanguardie intellettuali: il
solo tentare di portare alla luce questa intesa solleva un coro di
indignate proteste.[31] Non si trova più quell’alternativa secca
tra l’anticipazione dello sviluppo capitalistico con i
comportamenti autonomi della classe operaia e l’assoggettamento
alla socialdemocrazia. La classe operaia non è più estranea agli
ideali di razionalizzazione di cui è portatrice l’architettura
moderna, ne è investita anche se in seconda istanza e all’interno
di un’autonoma strategia politica. La critica marxista
dell’ideologia dell’architettura e dell’urbanistica deve porsi
anche il problema di demistificare la realtà contingente, perché
dietro le categorie unificanti di arte, architettura, città si
nascondono delle false “oggettività e universalità”. I
“movimenti di classe” sono chiamati a confrontarsi con i nuovi
livelli dello sviluppo capitalista, con “l’ambiguità
dell’ideologia borghese”, presa nella tensione fra obiettivi
“progressisti” e la necessità della propria oggettiva
mercificazione.[32]
Questo
confronto ha bisogno di una lettura in profondità dell’ideologia
capitalista in relazione ai rapporti di produzione. Tafuri analizza
il doppio movimento che compie l’ideologia. In primo luogo essa è
ormai data una volta per tutte nella forma della dialettica che fa
della contraddizione l’elemento dinamico dello sviluppo. Tuttavia,
se da una parte, ogni elaborazione ideologica compiuta in un sistema
istituzionale di valori non è che una pura e semplice riproposizione
di tali valori, dall’altra l’ideologia non può che ripercorrere
sempre e continuamente le stesse strade per “riscoprire” la forma
più alta di se stessa nella forma della mediazione.[33] Non la
mediazione politica e sociale dei contenuti e dei significati dei
valori veicolati dal sistema capitalistico, ma la forma in quanto
tale della continua mediazione tra conferma e “riscoperta” di
quei valori. In ultima analisi per sopravvivere l’ideologia deve
negarsi, rompere la catena di significati cristallizzati e
proiettarsi nella “costruzione del destino” degli uomini.
Un’analisi
storica dell’architettura del “Movimento Moderno”, come
strumento ideologico, dalla metà dell’Ottocento agli anni ’30
del Novecento, permette di individuare tre fasi successive:
a-
il formarsi dell’ideologia urbana come superamento delle mitologie
tardo-romantiche;
b-
il ruolo delle avanguardie artistiche nell’indicare i “bisogni
insoddisfatti” che la pittura, la poesia o la scultura non possono
realizzare che a livello puramente ideale e che invece solo
l’architettura e l’urbanistica sono in grado di concretizzare;
c-
la trasformazione dell’ideologia architettonica in ideologia del
Piano, con le teorie anticicliche dopo la crisi economica del 1929 e
il primo piano quinquennale dell’Unione Sovietica.
Questo
aspetto dell’ideologia architettonica che diventa ideologia del
Piano impegna Tafuri in un confronto indiretto con Tronti. Nel saggio
Marx, forza lavoro, classe operaia Tronti teorizza che tutto
l’apparato funzionale dell’ideologia borghese è stato consegnato
dal capitale nelle mani del movimento operaio ufficialmente
riconosciuto. Il capitale non gestisce più la propria ideologia ma
la fa gestire al movimento operaio. Quindi la critica dell’ideologia
è un compito interno al “punto di vista operaio”, che solo in un
secondo momento riguarda il capitale.[34] Tafuri partendo da un
riconoscimento formale della validità dell’elaborazione di Tronti
sull’ideologia, in realtà se ne discosta quando affronta il tema
della pianificazione in generale e di quella territoriale in
particolare. Si è generata un’illusione, dice, che la battaglia
per la pianificazione potesse costituire tout-court un obiettivo
della lotta di classe. Non si tratta nemmeno di contrapporre “piani
buoni” a “piani cattivi”, l’importante è riuscire a capire
quali condizionamenti delle “strutture di piano” siano utili per
gli obiettivi contingenti di parte operaia.
Vale
a dire che, nell’abbandonare il sogno del “mondo nuovo” che
sorge dal realizzarsi del principio di Ragione fattosi Piano, non si
compie alcuna rinuncia, né si prospettano apocalittici silenzi.
Riconoscere l’inagibilità di strumenti inoffensivi è solo il
primo passo necessario, ricordando come sia sempre presente il
pericolo di vedere raccolte dall’intellettuale “di classe”
missioni e ideologie svendute dall’avversario nel corso dei propri
processi di razionalizzazione.[35]
La
pianificazione territoriale realmente esistita ed esistente si è
trasformata spesso, se non sempre, in una centralità dei sistemi di
gestione del Piano rispetto al Piano stesso e l’ideologia
dell’equilibrio presente sia negli insegnamenti delle teorie
economiche post-keynesiane che nei piani quinquennali sovietici si
rivela un idolo inefficace. In un contesto capitalistico che
continuamente “agisce” gli squilibri per legare crisi e sviluppo,
rivoluzione tecnologica e mutamento della composizione organica del
capitale, assumere come prospettiva la pianificazione pacificata
dell’assetto territoriale non ha nulla di “ alternativo”, è
solo uno sterile anacronismo.
La
critica di Tafuri era rivolta in modo esplicito agli architetti ed
agli amministratori delle regioni “rosse” italiane degli anni ’70
del secolo scorso, che avevano come obiettivo quello di “regolare”
i meccanismi capitalistici che stavano alla base della formazione
degli assetti urbani. Al tempo stesso essa non si allineava con la
posizione di Tronti che vedeva la questione dell’ideologia come un
problema di gestione interna alla classe operaia. Per Tafuri
l’ideologia della pianificazione è l’espressione della crisi dei
dispositivi di funzionamento del modo di produzione capitalistico, è
il terreno avanzato degli “squilibri” del sistema capitalistico
perché nel momento in cui si tenta di pianificare un sistema
economico capitalistico non si fa altro che pianificarne gli
“squilibri”. In questo egli non vede una grande differenza con la
pianificazione sovietica, che per ovviare alla crisi del Piano lo ha
trasformato in una istituzione dello Stato riproducendo, in questo
modo, squilibri e contraddizioni a un livello superiore.
Qual
è quindi il rapporto tra architettura e ideologia?
Nell’architettura è quanto meno inutile definire l’ideologia
come falsa coscienza intellettuale. Nessuna opera architettonica,
anche la più mediocre e scadente, riesce a “riflettere”
un’ideologia preesistente ad essa: “Con le teorie sul riflesso e
il rispecchiamento la partita è chiusa da un pezzo”.[36]
L’ideologia dunque risiede nello scarto che l’opera
architettonica compie rispetto all’altro da sé. E l’altro da sé
sono le sue condizioni di produzione, di uso, di esistenza. Sono la
natura e la forma di questo scarto che producono ideologia. Bisogna
tuttavia tener conto di un’importante avvertenza: esiste uno
scarto anche tra l’ideologia incorporata nell’opera
architettonica e i modi di produzione dell’ideologia in un dato
periodo storico. Affrontare e analizzare questa doppia determinazione
ideologica richiede l’acquisizione di strumenti di ricostruzione
critica e della capacità di riconoscere immediatamente in che modo
lo scarto funzioni rispetto al reale. In che modo cioè esso si
comprometta nei confronti del mondo e quali siano le condizioni che
ne permettono l’esistenza. Ad una ideologia di natura puramente
documentaria che tende a plasmarsi sull’ordine esistente, nella
storia dell’architettura si contrappongono almeno altri tre modi di
produzione ideologica:
a-
un’ideologia “progressiva” che, puntando sul solo strumento
dell’immagine, prefigura una presa di possesso del reale nella sua
totalità. Si tratta di quell’avanguardia che alla prova decisiva
dei fatti, nello scontro con le forme di costruzione e mediazione del
consenso, è stata ridotta a pura propaganda;
b-
un’ideologia “regressiva” vale a dire un’“utopia della
nostalgia”, espressa in tutte le forme di pensiero antiurbano che,
per opporsi alla realtà mercificata delle metropoli, recuperano
mitologie di natura “comunitaria”;
c-
un’ideologia “istituzionale” che insiste sulla riforma delle
istituzioni relative alla gestione urbana, territoriale o del settore
edilizio, anticipando nuovi “modi di produzione” e un diverso
assetto della divisione del lavoro. [37]
Questa
classificazione non ha tuttavia per Tafuri un valore paradigmatico, è
uno strumento di lavoro per comprendere la doppia determinazione di
quello “scarto” che fonda il rapporto tra architettura e
ideologia. Un rapporto che parte dall’idea che tra istituzioni e
sistemi di potere non esista una perfetta identità. E l’architettura
in quanto istituzione non è un blocco ideologico unitario, le sue
ideologie agiscono in modo per nulla lineare. Spesso si rimane in
superficie e si fa i conti solo con gli aspetti più evidenti e
immediati dell’ideologia architettonica, ma per andare in
profondità non è nemmeno sufficiente spostare l’attenzione dal
testo architettonico al contesto urbano. Il contesto è fatto di
linguaggi artistici, realtà fisiche, comportamenti, dimensioni
urbane e territoriali, dinamiche politiche e economiche ed è
continuamente spezzato da ideologie sotterranee eppure agenti a
livello sociale, da tecniche di dominio diverse ognuna con un proprio
linguaggio. Solo assumendo questa pluralità nascosta di significati
molteplici si riuscirà a rompere il feticcio che si condensa attorno
ad un’ideologia.[38] Ma a questo punto sorge un nuovo problema:
l’ideologia non agisce mai
come forza “pura”. Non solo essa “sporca” la prassi ed è
“sporcata” da questa, ma si intreccia ad altre ideologie, spesso
antitetiche. Si potrebbe affermare che le ideologie agiscono per
fasci e si espandono capillarmente nella costruzione del reale.[39]
I
“fasci ideologici” di Tafuri non sono da intendere, nel loro
interagire, come i “rizomi” di Deleuze e Guattari. Al contrario,
è necessario “non far rizoma” con i fasci ideologici per rendere
l’analisi “fecondamente incerta” nella sua interminabilità,
nel suo dovere tornare sempre e di nuovo sugli aspetti esaminati e,
contemporaneamente, su se stessa.
4.
Lavoro intellettuale e produzione capitalistica
Misurarsi
con le trasformazioni del lavoro intellettuale usando le categorie
marxiane di lavoro astratto e lavoro concreto non è certo
un’impresa facile. Da una parte si può correre il rischio di una
generalizzazione indebita assimilando tutto il lavoro intellettuale a
un lavoro produttivo di natura tayloristica, al contrario dall’altra
parte c’è il rischio di una separazione netta e rigida tra
attività direttamente produttive e un lavoro intellettuale che non
entra nel processo di valorizzazione del capitale. Tafuri affronta
fino in fondo questi rischi e gli esiti non sono sempre positivi.
In
Lavoro intellettuale e sviluppo capitalistico[40] l’influenza
delle teorie operaiste di Tronti è molto evidente, tanto da dare
l’impressione che l’intera analisi sia ingabbiata all’interno
di uno schema che deve essere confermato a priori. Le forme e i
contenuti del lavoro intellettuale sono letti all’interno di un
Piano del Capitale. [41] Il lavoro intellettuale diventa
progressivamente lavoro produttivo a livello sociale. Anche se rimane
aperto il problema della sua collocazione nel ciclo capitalistico, il
lavoro intellettuale tende comunque a riconoscersi e a funzionare
come “scienza capitalista”, che si separa oggettivamente dai
ruoli più “arretrati” del lavoro ideologico che hanno come scopo
la pura mistificazione della realtà. In questo contesto la divisione
classica tra lavoro concreto e lavoro astratto perde la sua funzione
nella dimensione allargata della produzione sociale. Il lavoro
intellettuale, quindi, tende ad assumere i connotati del lavoro
operaio non per i contenuti e le forme di erogazione ma per il
rapporto che stabilisce con il capitale. Ma se il capitale tende ad
estendere il suo dominio sull’intero universo sociale e il Piano
del Capitale è messo in pratica dal funzionamento della società, si
avrebbe una società che allo stesso tempo è il prodotto dei
rapporti di produzione capitalistici e, attraverso una pianificazione
democratica, ne programma oggettivamente il loro sviluppo.
Qui,
l’analisi di Tafuri arriva in un vicolo cieco. Non gli rimane che
tornare indietro e rivedere parzialmente il percorso. Già nel saggio
sul lavoro intellettuale in Contropiano venivano avanzate alcune
ipotesi che in qualche modo accennavano alla necessità di un
cambiamento di approccio. Le teorie operaiste risultavano troppo
rigide per poterle assumere come unico punto di riferimento. Due
esempi, a questo proposito, sono illuminanti. Il primo era riferito
alle nuove caratteristiche della forza-lavoro intellettuale come
l’intercambiabilità, la polivalenza e la preparazione
interdisciplinare che sono acquisite già nel momento della
formazione: sarebbe scorretto, dunque, trasferire l’analisi
relativa all’omogeneizzazione del lavoro astratto in fabbrica
nell’analisi dei nuovi ruoli del lavoro intellettuale. Il secondo
riguardava il tentativo dell’urbanistica moderna di dare forma alla
dinamica di uno sviluppo urbano che non si è concretizzato in alcun
tipo di pianificazione territoriale preso come modello. Insomma un
Piano del Capitale che alla prova dei fatti non ha capacità e
strumenti per pianificare.
La
questione rimane sospesa per alcuni anni fino a quando Tafuri non si
pone direttamente il problema della definizione dell’architettura
come lavoro intellettuale.
Punteremo
l’attenzione sull’architettura come particolare forma del lavoro
intellettuale: un lavoro intellettuale che ha il privilegio di
insistere su una gamma di attività direttamente produttive. Ciò
significa porre l’accento su una dialettica: quella che viene a
istituirsi via via nel tempo tra lavoro concreto e lavoro astratto
nel significato marxiano dei termini[42]
È
un’impostazione che intende rispondere all’interrogativo di
Benjamin che pone in primo piano la funzione dell’opera all’interno
dei rapporti di produzione. In Tafuri tuttavia sembra sia presente
una continua oscillazione tra due interpretazioni del lavoro
astratto. Laddove afferma che la dialettica lavoro concreto-lavoro
astratto si ripropone ogni volta, con caratteri sempre originali, in
cui si produce un meccanismo di integrazione tra la prefigurazione
intellettuale e i modi di produzione c’è un accenno a una
concezione del lavoro astratto come fosse una costruzione del
pensiero e non un processo specifico del sistema capitalistico.
Quando invece sottopone ogni volta il lavoro intellettuale
dell’architettura, a partire dalle forme linguistiche e simboliche
del progetto architettonico, ad un esame capace di mettere in ogni
istante in causa la legittimità storica della divisione
capitalistica del lavoro assume fino in fondo l’elaborazione di
Marx sul carattere duplice del lavoro. Nel lavoro intellettuale,
sebbene particolare, dell’architettura non si lavora nello stesso
tempo due volte, una volta concretamente e l’altra astrattamente.
La duplicità del lavoro nello stesso momento genera valore con il
lavoro astratto e conserva e trasmette valore con il lavoro concreto.
[43]
La
nuova pista di ricerca che Tafuri apriva riguardava il lavoro
astratto in architettura come lavoro vivo che produce valore.
Purtroppo questa rimarrà una suggestione che non troverà
interlocutori e sostegno. Non è un caso che Tafuri sia rimasto
isolato: aveva posto quarant’anni fa una questione di cui si vede
solo oggi la natura e la portata. La sussunzione reale del lavoro
intellettuale dell’architettura al capitale attualmente passa
attraverso il lavoro oggettivato nei vari software dedicati alla
progettazione. Un processo parzialmente intravisto da Tafuri già nel
1970:
[…] è necessario
espellere dai linguaggi formalizzati di programmazione l’ambiguità
del linguaggio “naturale”; alle tecniche di creazione dei
linguaggi artificiali è riservato l’unico compito di innovazione
ammissibile al livello di comunicazione: quello, appunto, rivolto
alla strumentazione efficiente delle tecniche decisionali.[44]
E
una disciplina come l’architettura è soggetta a un continuo e
incessante rinnovamento in cui la comunicazione diventa un fattore
“produttivo”. È partendo da qui che diventa necessario passare
da una critica che si esercita sulla disciplina e sulle sue tecniche
particolari, a una critica della disciplina in quanto tale.
5.
Avanguardie e utopia
Le
avanguardie artistiche dei primi decenni del secolo scorso hanno
esercitato un’efficace critica delle discipline? E le utopie
prodotte sono state veramente alternative ad una società che faceva
del feticismo delle merci uno degli aspetti privilegiati per
riprodurre costantemente il proprio funzionamento e la propria
esistenza? Sono le domande che si pone Tafuri lungo un arco di tempo
durato venticinque anni. Le avanguardie e le utopie sono state i
punti di riferimento di quello che, nell’architettura, è stato
definito Movimento Moderno. Una definizione che Tafuri considera
“consolatoria e inoperante”. Quello che è stato chiamato
Movimento Moderno viene collocato all’interno di un insieme di
sforzi soggettivi compiuti per recuperare su nuove basi l’identità
perduta dell’architettura. La costruzione del concetto di
“movimento moderno” è stata un tentativo di accreditare “una
collettiva e teleologica dottrina della nuova architettura”, [45]
rimanendo tuttavia all’interno perlopiù di iniziative soggettive.
Se non si comprendono queste premesse risulta difficile poi capire la
posizione di Tafuri rispetto alle avanguardie e alle utopie
novecentesche.
Ancora
una volta sono gli scritti di Benjamin, questa volta quelli su
Baudelaire e Parigi [46], il punto di partenza e di riferimento di
Tafuri. La metropoli capitalista è il contesto in cui agiscono le
avanguardie artistiche e i compiti che esse assumono consistono nel
sottrarre l’esperienza dello choc ad ogni automatismo, fondare su
quell’esperienza codici visivi e di azione mutuati dalle
caratteristiche già consolidate della metropoli capitalista –
velocità dei tempi di trasformazione, organizzazione e simultaneità
delle comunicazioni, tempi d’uso accelerati, eclettismo – ridurre
al puro oggetto (metafora palese dell’oggetto – merce) la
struttura dell’esperienza artistica, coinvolgere il pubblico,
unificato in una dichiarata ideologia interclassista e perciò
antiborghese.[47]
Queste
caratteristiche dell’azione delle avanguardie, nel loro insieme,
vanno oltre le distinzioni fra Costruttivismo, Cubismo, Futurismo,
Dada e De Stijl. Le avanguardie sorgono e si succedono seguendo la
legge tipica della produzione industriale: la continua rivoluzione è
l’essenza dei processi produttivi e, siccome gli oggetti e i
materiali usati appartengono al mondo reale, l’organizzazione del
loro montaggio diviene il campo neutro, in cui si proietta l’azione
delle avanguardie, per portare alla luce l’esperienza dello choc
subita nella città.
Nel
momento in cui con il Cubismo e il Futurismo italiano e russo si apre
una nuova stagione dell’arte contemporanea, si pone il problema di
uscire dall’angoscia provocata dalla “perdita del centro” e
dalla solitudine del soggetto investito dalla “rivolta degli
oggetti”. Qui, in questo punto, la ricerca di Tafuri arriva ad uno
snodo decisivo che non è risolvibile con i soli strumenti della
critica all’ideologia architettonica. Si apre un percorso che,
senza essere esplicitato fino in fondo, cerca di stabilire identità
e differenze tra i concetti di alienazione, di reificazione e
feticismo delle merci in relazione con l’affermarsi delle
avanguardie. È evidente che per Tafuri alienazione e reificazione
non hanno il medesimo significato e l’azione delle avanguardie
artistiche dell’inizio del novecento non si limita solo
all’accentuazione dell’estraniazione vissuta nella società
capitalistica con lo scopo, più o meno dichiarato, di rovesciarne il
segno. Se, riprendendo Marx, con la sussunzione reale del lavoro al
capitale i rapporti tra le persone sono mediati dalle cose, ciò
investe anche l’azione delle avanguardie. Un’azione che non può
essere letta come semplice denuncia degli aspetti alienanti di un
modo di produzione sociale, ma ha essa stessa tra i suoi elementi
costitutivi non solo la “personificazione delle cose”, ma anche
la “reificazione delle persone”.
L’analisi
che Tafuri fa del Dadaismo mostra chiaramente i contorni di questa
dialettica.
L’istanza
del Dadaismo va alle radici del pensiero nietzschiano. Se il vento
della mercificazione globale ha reso anacronistico ogni Valore e
ridicola ogni istanza di Forma, affondare nell’informe può avere
come risultato “salvarsi l’anima”. La città posta sotto il
dominio della merce è anarchia: in essa ogni “familiarità” è
menzogna; vale solo la casualità più sfrenata. […] Dada non
mostra solo l’indifferenza con cui l’uomo che ha il coraggio di
guardare in faccia la realtà della mercificazione considera le cose,
ma anche il vuoto che la fine dei valori ( la nietzscheana “ morte
di Dio”) lascia dietro di sé. […] Gli oggetti indifferenti che
“galleggiano sospesi nel flusso della corrente monetaria” sono
ora disponibili: ridotti a segni, essi possono essere inseriti in un
processo di metamorfosi continue.[48]
L’opera
distruttiva delle avanguardie “negative” fa emergere in modo
quasi paradossale il volto “costruttivo” della continua
trasformazione del modo di produzione capitalistico. Sarebbe tuttavia
errato, avverte Tafuri, leggere nel percorso delle avanguardie
artistiche europee un avanzamento lineare verso il disincanto e la
completa affermazione della riproducibilità tecnica dell’arte e
dell’architettura. Piuttosto, ad esempio, sotto l’agire
iconoclasta del Futurismo e del Dadaismo compare a volte la
nostalgia per vecchi valori ormai irrecuperabili. Ma una dialettica
che produce una sintesi, seppur provvisoria, non è nell’ordine
del discorso di Tafuri, ed infatti una volta stabiliti gli aspetti
del possibile sviluppo di tale dialettica, egli non li fa
interagire, ma li mette di nuovo in crisi ponendoli in un’ulteriore
contraddizione.
La
provocazione – l’inestricabile groviglio di mistificazioni e
valori, che d’ora in poi informerà l’arte contemporanea – è
solo la pelle esterna di un processo alto borghese di presa di
possesso dell’universo tecnologico. Per questo, residui mistici e
disincantamento si alternano e si sovrappongono: l’essenza
“politica” dell’avanguardia è nella sua profezia di
liberazione totale delle “anime” una volta vinta la materia.[49]
Questo
è ancor più vero guardando al ruolo svolto dal Bauhaus in quanto
luogo di decantazione delle avanguardie che ha progressivamente
assunto il compito di selezionare tutti gli apporti delle avanguardie
stesse mettendoli alla prova di fronte alle esigenze del sistema
produttivo. Vincere “la materia per liberare le anime” sembra
essere più un imperativo etico che una prassi conflittuale che fa i
conti con il feticismo delle merci, dei progetti e - perché no ? -
delle utopie. Non c’è mito, non c’è enfasi in Tafuri quando
affronta la storia delle avanguardie. C’è una lucidità che a
volte sfocia in giudizi lapidari e feroci. La benjaminiana “perdita
dell’aura” riguarda anche le avanguardie e un’analisi
all’altezza delle trasformazioni capitalistiche del lavoro
intellettuale non deve fare sconti. Un approccio che chiama in causa
direttamente anche le utopie.
Le
utopie delle avanguardie vengono lette a partire dallo stato in cui
versa l’architettura negli anni ’70 del Novecento: il passato
viene letto con gli occhiali del presente. E qual è lo stato
dell’architettura negli anni ’70? Sta attraversando un “dramma”,
quello cioè di essere costretta a tornare pura architettura, ad “un’
istanza di forma” priva di utopia e, nei casi migliori, a diventare
sublime inutilità.[50] La fine delle utopie delle avanguardie
storiche ha delle conseguenze immediate sulla formazione di nuove
ideologie urbane. Ricondurre i problemi generali nell’ambito della
struttura dei rapporti di produzione, come fanno le ideologie urbane
dalla metà degli anni ’40 del secolo scorso, annulla il sogno
romantico dell’incidenza esclusiva dell’azione soggettiva
sull’andamento del “destino sociale”. L’utopia è sotto
scacco e rivela allo stesso pensiero alto-borghese, si pensi a Weber
e a Simmel, che il concetto stesso di destino è una creazione legata
ai nuovi rapporti di produzione.
Non
si deve tuttavia intendere che alla fine dell’utopismo sia
succeduta la nascita di un nuovo realismo. Anzi ci si trova davanti
ad una sovrapposizione, ad una compensazione, tra utopismo
realistico e realismo utopico. Le ideologie architettoniche e urbane
rimangono ancorate ad un’utopia della forma, come progetto di
recupero della totalità umana in una sintesi ideale, ma sono
contemporaneamente sovradeterminate dalla politica delle cose
realizzata dalle leggi del profitto. L’utopia della forma e la
politica della cose come due facce della stessa medaglia. Non si può
più parlare di utopia come progetto, ancor meno come di un progetto
di trasformazione. Nel campo artistico e architettonico l’utopia si
è risolta nell’integrazione della radicalità del momento
soggettivo all’interno del meccanismo complessivo della
razionalizzazione capitalista. Tanto da far supporre che Tafuri
arrivi alla conclusione che la fine delle utopie si sia tramutata in
un’etica della razionalizzazione.
In
realtà il suo obiettivo è di andare oltre la critica “dei critici
di architettura” per porre le basi di una critica dell’ideologia
architettonica. Non la critica delle forme e dei contenuti
dell’architettura ma la critica della posizione dell’architettura
nei rapporti di produzione, una critica che diventa storia e una
storia che si fa critica. Sembra di poter scorgere in tutta la
elaborazione di Tafuri riferita alle avanguardie e alle utopie la
presenza, sebbene solo evocata e mai dichiarata, del metodo
dell’economia politica che Marx illustra in Per la critica
dell’economia politica:[51] solo le determinazioni astratte
conducono alla riproduzione del concreto come sintesi di molte
determinazioni e unità del molteplice.
6.
La “Vienna rossa”
A
prima vista che cosa c’è di più concreto delle politiche urbane
adottate nelle metropoli europee e americane tra le due guerre
mondiali? Un periodo attraversato da avanguardie, utopie e grandi
rivolgimenti sociali. Tafuri si misura con i tentativi di riforma
urbana messi in campo nella Germania della Repubblica di Weimar,
nella Mosca post-rivoluzionaria, nelle metropoli statunitensi di
inizio novecento e, soprattutto, con il caso a suo giudizio più
avanzato: la “Vienna rossa” amministrata dal Partito
Socialdemocratico (SPO) dal 1919 al 1933. Per quanto riguarda gli
interventi urbanistici a Berlino e Francoforte durante la Repubblica
di Weimar, Tafuri arriva a una conclusione che sinteticamente, senza
aver la pretesa di rendere la ricchezza del suo pensiero, si può
riassumere in questo modo: le siedlungen[52] di Berlino e Francoforte
sono agglomerati residenziali che evocano in modo contraddittorio
più “utopie realizzate” che interventi qualificanti una nuova
dimensione urbana della città. Sono spesso un’esibizione
ideologica di una teorica “città operaia” che si configura come
città etica, città dell’igiene fisica e sociale, città della
pace sociale.[53]
Diverso
il caso di Mosca negli anni immediatamente successivi alla
Rivoluzione del 1917. È una città che diviene il campo di molte
sperimentazioni, che spesso però non incrociano i temi delle
avanguardie artistiche europee. L’ipotesi della città socialista
viene avanzata come sviluppo dei programmi elaborati fra l’Ottocento
e il primo decennio del Novecento dalla cultura borghese. C’è,
infatti, la convinzione che quei programmi utopici e incompleti
all’interno dei paesi capitalistici possano trovare una loro
concretezza solo nel paese che ha instaurato il “socialismo”.
Ma
è Vienna, si diceva, che a parere di Tafuri rappresenta il caso più
interessante e denso di riflessioni.
Eccezionale,
infatti, il coacervo di riflessioni teoriche cui si ispira la
politica austromarxista, eccezionali gli strumenti economici e
gestionali per dar vita al programma edilizio della Gemeinde Wien,
eccezionali i fini ultimi cui tendono questi strumenti, eccezionali
gli apparati formali che rendono visibile quel programma. Eppure, in
nessun altro ambiente come in quello viennese si fa palese il
carattere conflittuale dell’intreccio fra tecniche, ideologia e
forma: realmente, e non solo metaforicamente, lo spazio storico
individuato dal “rote Wien” è il luogo di una battaglia.[54]
Con
queste premesse si tratta di capire perché l’esperienza della
“Vienna rossa” si sia trasformata in una “tragica epopea”.
Non si può che iniziare facendo un breve ricognizione delle teorie
elaborate da un gruppo di intellettuali, dirigenti politici e
avanguardie sociali riuniti attorno all’associazione Zukunft e a
riviste come Marx-Studien e Der Kampf, che vennero definiti
“austromarxisti” ed avevano Max Adler e Otto Bauer tra i
principali esponenti. Max Adler scrive nel 1908 che “ogni causalità
sociale corre solo all’interno di una determinata forma
teleologica, che le imprime la natura spirituale dell’uomo ed è
quindi intrinsecamente finalistica”. Nell’uomo, egli aggiunge,
“l’essere non è più uno stato materiale, bensì qualcosa da non
considerare altrimenti che come realizzazione spirituale, come
pensiero, volontà e azione”.[55] C’è in questa elaborazione un
evidente spostamento verso il neokantismo delle determinazioni
proposte da Marx sul rapporto tra essere sociale e coscienza. Otto
Bauer perviene alla conclusione che la natura della Stato,
nell’Austria della fine degli anni ’10 del Novecento, coincida
con l’ipotesi che faceva Engels della possibilità eccezionale che
vi siano “dei periodi in cui le classi in lotta hanno forze
pressoché eguali, e il potere statale, in qualità di apparente
mediatore, momentaneamente acquista una certa autonomia di fronte ad
entrambe”.[56] Per Bauer l’Austria di inizio Novecento si trova
in questa situazione, che si prolungherà per un paio di decenni.
L’uomo
non più come essere sociale e lo Stato come un apparato autonomo di
fronte alle classi: questi sono i capisaldi di una riflessione
teorica che influenzerà anche le politiche urbane. Nel 1920 il
Partito Socialdemocratico abbandona la coalizione del governo
centrale perché la mancanza di risultati (la legge del 1919 sulla
nazionalizzazione delle imprese non trova applicazione per
l’opposizione dei cristiano-sociali) sta generando un notevole
malcontento nella propria base sociale. Si tratta di una ritirata
strategica per meglio concentrare gli sforzi su Vienna, già
amministrata dai socialdemocratici dal 1919. Ciò che risulta
irrealizzabile, questo è il ragionamento, nella partecipazione alla
gestione dello Stato centrale è attuabile nella Capitale. Si
vogliono dimostrare in modo esemplare le qualità di
un’amministrazione socialista in uno Stato che ha nell’autonomia
dalle classi il proprio carattere distintivo.
I
primi provvedimenti assunti dall’amministrazione socialista di
Vienna sono improntati a un riformismo urbano più radicale rispetto
alle politiche di altre città europee. Un decreto del 1919 sulla
requisizione degli alloggi che permette al Comune di controllare
45.000 abitazioni, la riforma (1922) della legge sulla protezione a
tempo indeterminato degli inquilini e l’approvazione di un piano
di intervento (1923) in cui si programma la costruzione di 5.000
appartamenti all’anno per cinque anni. I finanziamenti necessari
vengono reperiti attraverso la tassazione dei canoni di affitto sia
per gli inquilini che per i proprietari e poi da una tassa a
carattere progressivo sulle nuove costruzioni private. I proprietari
degli alloggi reagiscono accusando la SPO di “bolscevismo
dell’edilizia” e minacciando uno sciopero nazionale che prevede
il non pagamento delle tasse e il taglio della fornitura dell’acqua
e delle linee telefoniche agli alloggi. Il Partito Socialdemocratico
invita gli inquilini a formare dei comitati di caseggiato che
assumano direttamente l’amministrazione degli alloggi. Lo sciopero
dei proprietari dura un solo giorno e viene attuato solo a Vienna.
Non sarà comunque l’unico episodio, lo scontro con i proprietari
si ripeterà negli anni successivi.
Nel
dibattito che si sviluppa tra architetti, amministratori “socialisti”
e comitati di inquilini sulle tipologie abitative sui piani
quinquennali di intervento urbano si mette al centro la relazione tra
la città e i nuovi insediamenti. Da una parte ci sono i sostenitori,
tra cui Adolf Loos e Josef Frank, delle Siedlungen a bassa densità
urbana costruite alla periferia della città, dall’altra invece i
fautori, tra cui Peter Behrens e Karl Ehn[57], degli Hofe.[58] Con
l’affermazione del modello degli Hofe, tra il 1919 e il 1933, il
Comune di Vienna ne costruisce 370 di varie dimensioni (il 70% di
tutta la produzione edilizia tra le due guerre) e vara un piano di
intervento pubblico di notevoli dimensioni con lo scopo di
modificare il funzionamento di un settore importante dell’economia
capitalista come l’industria delle costruzioni e l’assetto urbano
della città. Due obiettivi più volte dichiarati che però non
agiranno mai nella profondità dei rapporti di produzione. Si rimane
a mezza strada cercando di ridefinire continuamente gli interventi.
La produzione dello spazio costruito non è esente dal funzionamento
di un più generale modo di produzione delle merci e il tentativo del
partito Socialdemocratico di gestire l’intero processo solo a
livello amministrativo, limitando tra l’altro la capacità
conflittuale del movimento operaio viennese, va incontro a
contraddizioni insanabili.
Per
Tafuri ci sono anche altri importanti elementi aggiuntivi che
trasformano la “Vienna rossa” in una tragica epopea. Il progetto
del Partito socialdemocratico di far diventare Vienna “uno Stato
nello Stato”, un territorio che doveva divenire il banco di prova
della sperimentazione della “democrazia socialista”, ottiene:
un risultato politico
indubbio. Isolandosi dalle campagne e dalle piccole città, Vienna
circoscrive l’influenza dei ceti più retrivi e conservatori,
assumendo un ruolo egemone. Ne discende un nuovo “dovere” per la
città che si risveglia dopo la “seria Apocalisse” delle
mitologie asburgiche. Bisognerà realizzare una Vienna rossa, a costo
di negare – sulla base dell’assurdo politico ed economico imposto
dalle contingenze - le funzioni specifiche della metropoli moderna
[59]
Vienna,
come tutte le metropoli di quel tempo, cresce su se stessa.
L’intervento pubblico non prende in considerazione la necessità di
una diversa organizzazione urbana, gli Hofe della Vienna rossa sono
visti come i bastioni della futura Vienna (e dell’Austria)
socialista. In realtà questi grandi blocchi residenziali si
inseriscono nelle maglie della città esistente accettandone tutti i
vincoli.[60]
La
“composizione di classe” del movimento operaio viennese stava
velocemente cambiando andando oltre le rivendicazioni tipiche degli
operai di mestiere, con comportamenti che richiedevano forme di
democrazia non ingabbiate dal mastodontico apparato burocratico del
Partito socialdemocratico. La storia del Karl Marx- Hof, il più
grande e noto dei blocchi residenziali per operai, da questo punto di
vista è paradigmatica. Costruito nel 1927, su un progetto di Karl
Ehn, diventa una “cittadella rossa”, di circa 5.000 abitanti,
gelosa della propria autonomia rispetto al contesto urbano in cui è
inserita. In esso vive una sorta di “utopia del semantico”:
calata nell’affermazione
di un “umanesimo socialista” capace di opporsi all’annullamento
della Kultur e delle tradizioni in essa incarnate. Qui veramente
abbiamo “realismo socialista”; qui, veramente, il mito lukacsiano
della totalità è assunto in pieno. Una mistica alto-borghese
informa la più compiuta “montagna incantata” del “ rote
Wien”[61]
Un
blocco edilizio che resiste alla metropoli con strumenti e simboli
anacronistici. Un sublime e tragico “monumento socialista”. E
quando nel febbraio del 1934 la Vienna rossa cade sotto i colpi
dell’esercito governativo, lo stato d’animo degli operai che
hanno resistito è ben riassunto da una frase pronunciata da un
operaio della Via di febbraio, il romanzo di Anna Seghers: “Non è
più tutto come prima. Il Karl Marx-Hof non è rovinato, lui ce l’ha
fatta. Ma la nostra fede nel partito… quella sì, si è
sfasciata”.[62] Nei 14 anni di vita della Vienna rossa si è fatto
il tentativo di intrecciare ai livelli più alti, e su grande scala,
una riforma urbana con le vicende politiche della lotta di classe.
L’esito non è stato dei migliori, anche per la natura
esclusivamente riformista del Partito socialdemocratico, ma la
questione tuttavia rimane aperta.
Una
questione che permette a Tafuri, e in Italia a non molti altri, di
riflettere sul ruolo svolto dai partiti di sinistra, in primo luogo
dal Partito comunista italiano, nelle politiche urbane e
nell’amministrazione di regioni e grandi città.[63] Nella
sospensione di giudizio adottata Tafuri sull’azione amministrativa
del PCI alla metà degli anni ’70 traspare tuttavia un’analogia
che si rivelerà premonitrice:
L’esperienza
storica ci può insegnare molte cose, ma non è detto che debba
ripetersi. Indubbiamente nell’esperienza della Germania
socialdemocratica, o della Vienna socialdemocratica, il movimento
delle cooperative non serviva a far progredire le lotte, ma serviva
all’illusione di “risolvere”.[64]
Nel
senso che l’azione politica ed economica delle cooperative,
sostenuta dai governi delle regioni e delle città, veniva
considerata in termini risolutivi rispetto a un possibile cambiamento
del mercato immobiliare. Un’illusione che si rivelerà tragica per
lo stesso Partito Comunista Italiano che verrà sempre più assorbito
dai sistemi di potere e di gestione dei governi locali ridefinendo il
proprio riformismo a livelli sempre più bassi e subalterni.
7.
Il progetto storico
In
un’intervista del 1986 alla domanda sul ruolo della critica nello
sviluppo del discorso architettonico, Tafuri risponde: “La critica
non esiste, c’è solo la storia”.[65] Sembra una provocazione.
L’affermazione è perentoria e molto impegnativa, ma non è una
provocazione. Si fonda sulla riflessione svolta qualche anno prima in
uno dei testi più importanti per confrontarsi con il pensiero di
Tafuri: La sfera e il Labirinto.
la storia è […] vista
come un “produrre” in tutte le articolazioni del temine.
Produzione di significati, a partire dalle “tracce significanti”
degli eventi, costruzione analitica mai definitiva e sempre
provvisoria, strumento di decostruzione di realtà accertabili. Come
tale, la storia è determinata e determinante: è determinata dalle
proprie stesse tradizioni, dagli oggetti che analizza, dai metodi che
adotta; determina le trasformazioni di sé e del reale che
decostruisce.[66]
La
storia dell’architettura non può essere ridotta ad un’ermeneutica
e non ha l’obiettivo di scoprire la “verità”. Il suo compito
è spezzare le barriere che essa stessa costruisce, per procedere,
per andare oltre. Invece i linguaggi della critica in architettura,
nelle comunità accademiche come sulle riviste specializzate, che
dovrebbero “spostare e infrangere i sassi”, sono essi stessi dei
“sassi”.[67] E per Tafuri non sono nemmeno convincenti le
“genealogie foucaultiane” e le disseminazioni di Deridda, perché
vanno incontro al pericolo di consacrare i “frammenti analizzati al
microscopio come nuove unità autonome e in sé significanti”.[68]
La critica di Tafuri a Foucault e Deridda è esplicita, ma non fa uso
dell’argomentazione che per rimettere in piedi la storia basta
spostare l’attenzione dal “testo al contesto”. Pur riconoscendo
che un approccio genealogico evita ogni lineare causalità e si
oppone a quelle teologie indefinite che vanno sistematicamente alla
ricerca “dell’origine”. I “linguaggi critici” e dei
“critici” possono decostruire opere e testi, proporre
affascinanti genealogie, illuminare nodi storici occultati da letture
di comodo, ma negano sistematicamente uno spazio storico. Infatti si
opera costantemente una semplificazione illecita ogni volta che la
“buona volontà” del critico fa esplodere la sua cattiva
coscienza costruendo percorsi lineari che fanno migrare
l’architettura nel linguaggio, questo nelle istituzioni e le
istituzioni in una supposta universalità omnicomprensiva della
storia. Il vero problema è come progettare una critica capace di
mettere in crisi se stessa e la realtà dell’architettura. Un
problema irrisolvibile per una critica che si è progressivamente
articolata in critica del testo, critica della semantica, critica
sociologica, critica delle forme e della composizione architettonica.
Solo
la storia è in grado di progettare la propria crisi: il progetto
storico è un “progetto di crisi”. Ma che significa fare un
progetto storico come progetto di crisi? E quale storia e quale
crisi? La storia dell’architettura, dice Tafuri, è il frutto di
una dialettica irrisolta, in cui non c’è alcuna nostalgia per le
sintesi a posteriori e in cui
L’intreccio fra
anticipazioni intellettuali, modi di produzione e modi di consumo
deve far “scoppiare” la sintesi contenuta nell’opera.[69]
Le
opere architettoniche sono affrontate introducendo una disgregazione,
una frantumazione delle loro unità costitutive.
Di
tali componenti disgregate sarà necessario procedere ad un’analisi
separata. Rapporti di committenza, orizzonti simbolici, ipotesi di
avanguardia, strutture del linguaggio, metodi di produzione,
invenzioni tecnologiche […] così denudate dall’ambiguità
connaturata alla sintesi “mostrata” dall’opera.[70]
Tuttavia
nessuna di tali componenti singolarmente servirà a comprendere la
“totalità” dell’opera. L’atto del “critico storico”
consisterà quindi in una ricomposizione dei frammenti una volta
storicizzati. Ma come e in che modo? L’intreccio tra lavoro
intellettuale e le condizioni della produzione dell’opera offre un
valido strumento per ricomporre il “mosaico” dopo la
scomposizione analitica compiuta precedentemente.
Far
rientrare la storia dell’architettura nell’ambito di una storia
della divisione sociale del lavoro non significa affatto regredire a
un “marxismo volgare”, non significa affatto cancellare le
caratteristiche dell’architettura stessa. Anzi, queste ultime
andranno esaltate mediante una lettura capace di collocare – sulla
base di parametri verificabili – il reale significato delle scelte
progettuali nella dinamica delle trasformazioni produttive che esse
mettono in moto, che esse ritardano, che esse tentano di
impedire.[71]
In
questa rappresentazione della storia Tafuri usa in modo evidente la
categoria marxiana di astrazione determinata e risponde a modo suo -
probabilmente è il solo tra i critici e gli storici
dell’architettura ad averlo fatto - all’interrogativo di
Benjamin sulla posizione dell’opera all’interno dei rapporti di
produzione. Una risposta che presenta al proprio interno tutti gli
elementi per essere messa in crisi, che richiede di essere messa in
crisi. Quindi non uno spaccato storico ma un percorso a scatti
all’interno di un groviglio di sentieri con tante “costruzioni
provvisorie”. Uno spazio storico in cui la crisi diventa progetto
di trasformazione.
Felice Mometti
La crisi come progetto
Architettura e storia in Manfredo Tafuri
Felice
Mometti est un architecte et un doctorant en philosophie à Paris
VIII. Il rédige une thèse sur la crise de la modernité. Il
s'occupe de marxisme et d'idéologie de l'architecture et il étudie
la pensée de Manfredo Tafuri, historien italien de l'architecture.
RESUME
: La crise en tant que projet. Architecture et histoire dans la
pensée de Manfredo Tafuri
L'histoire
de l'architecture ne peut pas être réduite à une herméneutique et
elle n’a pas pour but de découvrir la “vérité”. Elle a pour
tâche de briser les barrières qu’elle construit elle-même, pour
avancer, pour aller au-delà d’elles. Dans le même temps, il faut
prendre conscience que le noyau théorique et analytique de fond est
la question posée par Benjamin au sujet de la poésie et qu’il est
nécessaire de poser aussi par rapport à l’architecture. En effet,
il ne faut pas demander quelle position une œuvre occupe en relation
aux rapports de production, si elle est en syntonie avec eux, si elle
est réactionnaire, ou si elle vise à les bouleverser, si elle est
révolutionnaire. Avant de demander quelle position l’architecture
occupe en relation avec les rapports de production, il faut se
demander quelle est sa position au sein de ces derniers. Conformément
à cette représentation de l’histoire, Tafuri utilise la catégorie
marxienne d’abstraction déterminée, afin de répondre à sa façon
à l’interrogation de Benjamin concernant la position de l’œuvre
architecturale au sein des rapports de production – et il est
probablement le seul parmi les critiques et les historiens de
l’architecture à l'avoir fait – . Ainsi, l’histoire de
l’architecture n’est pas une histoire linéaire, mais plutôt un
parcours fragmenté, un enchevêtrement de plusieurs sentiers,
parsemés de beaucoup de “constructions provisoires”, un espace
historique dans lequel la crise devient projet de transformation.
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[7]
Lefebvre 1973.
[8]
Tafuri 1969, p. 78.
[9]
Tafuri 1992.
[10]
Gregotti 1995, p. 2-9.
[11]
Tafuri 1992.
[12]
Nella Storia dell’architettura per Movimento Moderno generalmente
si intende quell’insieme di idee, teorie, esperienze e opere che ha
caratterizzato il periodo che va dagli anni precedenti alla prima
guerra mondiale alla fine degli anni ’30.
[13]
Tafuri 1992, p. xx.
[14]
Da Solà-Morales 2000, p. 56-60.
[15]
Wright 2008, p. 93-120.
[16]
Asor Rosa 1995, p. 28.
[17]
Editoriale 1968, p. 243.
[18]
Borio, Pozzi, Roggero 2002, p. 54.
[19]
“Primo Bilancio” 1968, p. 237.
[20]
Tafuri 1969a, p. 31-79.
[21]
Tafuri 1970, p. 241-281.
[22]
Tafuri 1971a, p. 207-223
[23]
Tafuri 1971b, p. 259-311.
[24]
Tafuri 1969a, p. 31.
[25]
Tafuri 1968.
[26]
Ibid. p. 241.
[27]
Tafuri 1969a, p. 34-35.
[28]
Ibid. p. 42.
[29]
Ibid. p. 78.
[30]
Tafuri 1973.
[31]
Ibid. p. 6.
[32]
Ibid. p. 169.
[33]
Ibid. p. 57.
[34]
Tronti 2006, p. 121-265.
[35]
Tafuri 1973, p. 160.
[36]
Tafuri 1975, p . 278.
[37]
Ibid. p. 278.
[38]
Tafuri 1980a, p. 10.
[39]
Ibid. p. 15.
[40]
Tafuri, 1970.
[41]
La forma generale del potere è “alla ricerca di un diverso
difficile equilibrio tra l’esigenza crescente di una
centralizzazione delle decisioni e la necessità di un effettivo
decentramento delle funzioni di collaborazione e di controllo: unità
tendenziale di autorità e pluralismo, di direzione centrale e
autonomie locali, con una dittatura politica e una democrazia
economica, uno Stato autoritario e una società democratica. A questo
punto, è vero, non c’è più sviluppo capitalistico senza un piano
del capitale. Ma non ci può esserci piano del capitale senza
capitale sociale. E’ la società capitalistica che programma da sé,
il proprio sviluppo. E questa, appunto, è la pianificazione
democratica.” Tronti 2006, p. 70.
[42]
Tafuri 1975, p. 276 .
[43]
Marx 2009, Libro primo, p. 298-299.
[44]
Tafuri 1970, p. 267.
[45]
Tafuri 1976, p. 5.
[46]
Benjamin stabilisce una analogia tra l’esperienza dello choc del
passante tra folla metropolitana e quella dell’operaio addetto
alle macchine “[…] Marx mostra come, nel mestiere, la
connessione dei momenti lavorativi è continua. Questa connessione,
resa autonoma e oggettivata, si ripresenta nell’operaio di fabbrica
nella catena di montaggio. Il pezzo da lavorare entra nel raggio
d’azione dell’operaio indipendentemente dalla sua volontà; e
altrettanto liberamente gli si sottrae”. Benjamin 1962, p. 110-111.
[47]
Tafuri 1973, p. 78.
[48]
Tafuri 1976, p. 105.
[49]
Tafuri 1976, p. 107.
[50]
Tafuri 1973, p. 3.
[51]
Marx 1974, p. 189.
[52]
Insediamenti residenziali caratterizzati da “un’architettura
razionalista”, costruiti alla periferia delle città tedesche,
[53]
Tafuri 1971a.
[54]
Tafuri 1980b, p. 7.
[55]
Adler 1908, p. 35-38.
[56]
Engels 1980, p. 178.
[57]
Sull’attività di architetti come Loos, Frank, Behrens, Ehn si veda
Tafuri 1976.
[58]
Grandi blocchi edilizi che hanno al loro interno una vasta gamma di
servizi collettivi – asili, scuole, lavanderie, cucine, laboratori
artigiani, spazi verdi – costruiti nella fascia intermedia e
suburbana della città di Vienna.
[59]
Tafuri 1980b, p. 10.
[60]
Ibid. p. 28.
[61]
Ibid. p. 94.
[62]
Ibid. p. 140.
[63]
A metà degli anni ’70 il PCI è al governo oltre che nelle città
delle tradizionali regioni “rosse” (Toscana, Emilia Romagna,
Umbria) anche a Roma, Milano, Torino, Genova, Venezia e Napoli.
[64]
Intervista a Tafuri, in “AMC Architecture-Mouvement-Continuité”
39, giugno 1976
[65]
Casabella 1995, 619-620, p. 96.
[66]
Tafuri 1980a, p. 5.
[67]
Qui Tafuri si riferisce a Nietzsche che in Aurora allude a “parole
eternizzate e dure come sassi, e ci si romperà una gamba invece di
rompere una parola”.
[68]
Tafuri 1980a, p. 7.
[69]
Ibid. p. 20
[70]
Ibid. p. 20
[71]
Ibid. p. 22
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